Vulnerabilità: l’importanza di accettare le proprie fragilità in un mondo che rende tanto difficile restare teneri

Se c’è una cosa che ho imparato negli anni è che non esistono parole buone e parole cattive. Siamo noi ad attribuire significati e valori diversi alle parole. Le nostre storie, gli ambienti che abitiamo, le relazioni che viviamo danno significato alle parole. Pensando alla parola vulnerabilità, che mi è particolarmente cara, ho notato che spesso le storie, gli ambienti, le relazioni ci fanno credere che la vulnerabilità sia qualcosa di negativo. Non qualcosa di cattivo, intendiamoci. Qualcosa che fa parte di noi ma che spesso non riusciamo ad accettare. Qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi. Qualcosa da eliminare per poter essere più forti. Ho anche l’impressione che il mondo spesso non accetti segni di vulnerabilità. Essere forti è grandioso, questo lo riconosco. Ma a che prezzo il mondo ci chiede di essere forti? E da che età bisogna iniziare ad essere forti? E a che età si può smettere di esserlo? Si può piangere a 6 anni perché si è rotto il gioco preferito o è da deboli? Si può smettere di essere chiamati “ragazzi” a 50 anni o è da fiacchi? Si può non essere leader sul lavoro a 70 anni o è da perdenti?

Tante volte la sofferenza nasce dal non riuscire a vedere al di là del bianco ed il nero; allora io mi chiedo: è vero che due opposti non possono  coesistere?Non ci può essere forza e debolezza insieme oppure queste sono due parti dello stesso essere? Io credo che si possa essere forti e deboli insieme. Mi piace pensare alla debolezza come fragilità. Fragilità che acquista immediatamente un alone di preziosità. Ed in un attimo la vulnerabilità diventa preziosa, bella e gentile. Con quella gentilezza posso accettare le mie fragilità e quelle degli altri.

Con quella stessa gentilezza posso accettare le fragilità degli altri e le mie

Parlando di vulnerabilità, mi girano in testa le parole della giovane poetessa Rupi Kaur che arrivano dritte al cuore:

È stato uno degli anni più grandiosi e difficili della mia vita. ho imparato che ogni cosa è passeggera. momenti. emozioni. persone. fiori. ho imparato che l’amore sta nel donare. tutto. e nel lasciare che mi dia dolore, ho imparato che la vulnerabilità è sempre la scelta giusta perché è facile essere insensibili in un mondo che rende tanto difficile restare teneri. ho imparato che tutte le cose esistono in coppia. vita e morte. dolore e gioia. sale e zucchero. io e te. è l’equilibrio dell’universo. è stato l’anno di un dolore bruttissimo ma di una vita bellissima. rendere amici gli estranei. rendere estranei gli amici. imparare che la stracciatella alla menta risolve quasi tutto e per i dolori che non risolve ci sono sempre la braccia di mia madre. dobbiamo imparare a concentrarci sull’energia calda. sempre. immergervi gli arti e diventare più bravi ad amare il mondo. perché se non sappiamo imparare a trattarci con gentilezza l’un l’altro come potremo mai imparare a trattare con gentilezza le parti più disperate di noi stessi.”

L’idea di invulnerabilità, di forza a tutti i costi, di infallibilità è illusoria. Riconoscere le proprie vulnerabilità vuol dire riconoscersi per come si è veramente. Mostrarsi con le proprie vulnerabilità vuol dire mostrarsi in maniera autentica agli altri. Fragilità è autenticità. È molto faticoso mostrarsi così perché ci espone al giudizio, al confronto, alla sofferenza. Avere un’alta autostima può esserci d’aiuto in questo perché ci aiuta a non dipendere dal giudizio degli altri, a non temere troppo il confronto degli altri e a tollerare anche una dose di sofferenza. Virginia Satir, psicoterapeuta americana, nella sua dichiarazione di autostima espone un concetto di autostima che ha molto a che fare, tra le altre cose, con l’accettazione delle proprie fragilità:

“ … Mi appartiene tutto di me, il mio corpo, con tutto ciò che fa; la mia mente, con tutte le sue idee e i suoi pensieri; i miei occhi, con le immagini di tutto ciò che contemplano; i miei sentimenti, qualsiasi essi siano: rabbia, gioia, frustrazione, amore, delusione, eccitazione; la mia bocca e tutte le parole che ne escono: educate, dolci o aspre, corrette o scorrette; la mia voce, sonora o delicata; e tutte le mie azioni, siano esse verso gli altri o verso me stessa. Mi appartengono le mie fantasie, i miei sogni, le mie speranze, le mie paure. Mi appartengono tutti i miei trionfi e successi, tutti i miei fallimenti ed errori. Poiché mi appartiene tutto di me, sono in grado di familiarizzare intimamente con me stesso. Facendo ciò sono in grado di amarmi e di essermi amica in tutte le mie parti. Posso allora far sì che tutto di me lavori per il mio migliore interesse.”

Il mondo social mette a dura prova questa idea di autostima perché rimanda immagini di perfezione, di sola felicità ed implicitamente ci dice che si può mostrare solo il bello. Addirittura si usano i filtri per correggere le imprecisioni e mostrarsi nella migliore versione di sé. Filtri che tolgono autenticità ma ai quali cediamo. Barattiamo un po’ di autenticità per un po’ di illusoria invulnerabilità, così ci allontaniamo dall’accettazione della vulnerabilità e della concessione che facciamo a noi stessi di poter fallire.

Vivere un momento di sofferenza psicologica può far sentire vulnerabili, fragili. Non accettare questa vulnerabilità può portare a non chiedere aiuto, a vergognarsi di questa parte di sé e a cercare di reprimerla. Fa paura, è vero. Ma la paura blocca ed il rischio è quello di rimanere fermi nel tempo della sofferenza e fermi nell’azione. Allora diventa indispensabile avvicinarsi a quella parte più fragile di noi, farci i conti, parlarle e farcela diventare, perché no, anche un po’ simpatica.

 

articolo a cura di Francesca Lacchini psicologa   Psicoterapia Liberamente Ravenna                   

Bibliografia:
R. Kaur, 2018, Il sole e i suoi fiori, TRE60, Milano
V. Satir, 2000, In famiglia… come va? Vivere le relazioni in modo significativo, Impressioni Grafiche, Acqui Terme Alessandria
2021-11-13T21:28:40+01:00